Occhi di oceano: Big Island, Hawaii

Quando ad appena un mese dal tuo trasferimento Cagliariforniano il tuo nuovo capo ti propone di presentare ad una conferenza alle Hawaii, capisci di essere decisamente al posto giusto. Si, ho saltato di gioia. No, non di fronte a lui.

Sono partita verso Kona a cavallo tra Novembre e Dicembre 2023, quando intense piogge si alternano a giornate di primavera, regalando una imprevedibilità di clima che mi sono potuta pregustare durante il mio breve scalo a Honolulu, principalmente occupata a pianificare il delicato equilibrio tra lavoro e vacanza. La conferenza è durata quattro giorni, e ho potuto prenotare un auto per girarmi l’isola sia il giorno prima che il giorno dopo la conferenza. Due giorni di road trip, di cui sono ancora tanto grata. Se si intuirà quanto e come, non saprei, onestamente. E` stato tanto. Forse, di tutti i miei viaggi, il più intenso.

Volare verso le Hawaii significa abbracciare un mondo di distruzione E ricostruzione E rinascita, rappresentati dal nero della roccia vulcanica, il giallo della vegetazione che dopo circa un secolo ricopre il nero e, infine, il verdissimo, l’abbacinante verde della foresta pluviale. 


Un cielo carico di pioggia mi ha accolto quando sono arrivata, la sera. Ho preso un bus, e dopo un’ora, quando il buio ha avvolto l’isola, ho camminato con il mio grosso zainetto rosso verso il mio appartamento.

Quella sera ho sperimentato una paura nuova, mentre camminavo dalla fermata fino al mio alloggio, circa mezz’ora a piedi, al buio di una desolata campagna hawaiiana. Non di essere aggredita, non era quel tipo di paura. Non ero realmente in pericolo. Sbagliando, immagino, non avevo mai avuto paura degli elementi naturali. Uno dei ricordi più cari che ho della mia spiaggia dell’infanzia è il mare in tempesta a fine agosto, con i fulmini che illuminano la torre sul promontorio a destra. Il mio primo “Ti amo”, ad oggi il più sincero mai sentito, me lo hanno detto in una notte passata a guardarci una tempesta di fulmini, e mai fulmini furono così dolci. E il cielo più stellato l’ho visto da una barca in mezzo al mare, in piena notte, luci spente, il meraviglioso silenzio del mare, calmo, in attesa, come noi.
Ma lì, sotto quel cielo, io ho avuto paura.

A Kona, la natura domina. Io sono ospite. A questo, no, non sono mai stata realmente abituata. Spaventoso. Bello, e spaventoso. Iniziamo leggeri, insomma.

La mattina dopo, la natura mi ha gentilmente salutato con delle adorabili oche canadesi, che ho poi scoperto essere tutto fuorché allineate con la stereotipica cortesia canadese: ho letteralmente aperto la porta scorrevole vetrata del mio appartamento, aggirato quattro oche, di cui una ha cercato di “inseguirmi”. Non ho mai capito se con intenzioni amichevoli o meno, ma ho preferito non indagare. Avevo un auto da recuperare.


Il primo giorno di vacanza sono state circa otto ore di viaggio, accompagnata solo da una sensazione unica di rifugio e una playlist a base di pop anni 2000. Dicembre 2023 è stato decisamente un momento caratterizzante della mia vita, e non per le mie preferenze musicali.

La primissima tappa è stata, ovviamente, dedicata alla ricerca delle tartarughe in uno dei tanti santuari nell’isola, presso il Kaloko-Honokohau National Historical Park, nello specifico. Il Parco è una bella occasione per avvicinarsi alla storia unica dell’isola, tanto a lungo protetta dal mare da avere permesso uno sviluppo indipendente fino al ventesimo secolo. Meraviglia. Ancora ho il dépliant del parco, a distanza di più di un anno da questo viaggio. Le guide del parco si dimostrano entusiaste della geologia dell’isola, mi spiegano come arrivare alla spiaggia, cosa osservare attorno a me durante il tragitto. Mi raccontano della vita che i locali hanno vissuti per secoli, al sicuro dal resto del mondo, o sulla costa (makai, “verso l’oceano”) o nell’entroterra (mauka, “verso le montagne”), sempre consapevoli di quanto ogni evento li avrebbe sempre influenzati tutti, di come l’acqua che si riversa nella pioggia sia la stessa che risale dall’oceano e lì lo senti, lo annusi distintamente, il sale dell’oceano, nella pioggia che ti scorre adosso. E io sorrido, sorrido travolta dal suo entusiasmo, sorrido perché cammino su quelle belle rocce nere, sorrido perché sto andando verso le tartarughe, e la vita sembra dannatamente leggera. Il sentiero si rivela estremamente semplice, appena mezz’ora a passo sostenuto, un bivio, poi a sinistra e, eccola, una piccola spiaggia, a Dicembre essenzialmente una lingua di sabbia divorata dal mare, lì calmo.


Vedo prima il dorso, coperto interamente dall’acqua cristallina. Poi, appena si alza per emergere dall’acqua e studiarmi, la testa. La tartaruga verde, la Honu, mi osserva, curiosa, da circa sette metri. Sorrido, mentre la fotografo, per poi continuare a camminare lungo la spiaggia. A quel punto riesco a vedere tutte le altre, per lo più intente a farsi cullare dalle onde, spiaggiate sul fondale roccioso, alto appena fino al mio polpaccio. Alcune si prendono il sole sulle rocce, e credo di averne perfino vista una “salutarmi” con la pinna, ma qui sono decisamente gli occhi di bambina felice a parlare. Credo di essere rimasta ad ammirarle una dopo l’altra per almeno mezz’ora, loro e quelle acque tanto cristalline, perfino a Dicembre, perfino appena dopo la pioggia. 


Il nero è tanto nella zona di Kona, ma non mi bastava. Ne volevo di più, e lo ho effettivamente trovato sulla spiaggia nera di Punalu'u, dove la pioggia mi ha interamente inzuppata. Ho guidato per un’ora e mezza nella pioggia torrenziale, per conto mio, e ho riso. Tanto. E anche lì, nella pioggia, io salatissima di oceano, il nero denso della spiaggia, contrapposto al verde accecante della vegetazione, non ho fatto altro che ammirare e sorridere. Una simpatica coppia di locali mi ha salutato da lontano mentre mi annusavo la spiaggia, la quale ho scoperto anche essere un noto punto di covatura per le tartarughe, come un cartello ha avuto modo di ricordarmi, ma lì non ho avuto la fortuna di incontrarle.


La spiaggia è il mio luogo di fuga. Da sempre. Ricordo che il capodanno in cui stavo capendo di essere omosessuale, ma non ne avevo ancora parlato con nessuno, ho preso l’auto, la mattina dopo i festeggiamenti, ho lasciato gli amici nell’appartamento, e ho guidato, per conto mio, verso la spiaggia più vicina, quella di Nora. Era la mia fuga. Era la mia pausa. Poco meno di un anno prima di trasferirmi in California, quando la vita era ormai nel pieno del caos e la mia casa bruciava di paure, la mia fuga era stata il promontorio di San Giovanni del Sinis, con l’unica compagnia autorizzata all’epoca a vedermi in frantumi. Non si contano, le mie fughe verso il mare. Le mie pause. I miei respiri. E lì, in quella spiaggia, immersa nella pioggia, dopo credo un anno almeno, ho veramente respirato di nuovo.


Poi, conferenza, dove non c`è spazio per i respiri. Non farei il mio lavoro, se non mi rapisse abbastanza.

Finita la conferenza, ho continuato il mio road trip. Un solo altro giorno di vacanza, iniziato con la ricerca del caffè Km 0 di Kona. Ho lasciato la costa, e ho guidato, pianissimo, verso l’entroterra, lasciandomi inghiottire gradualmente da quel verde che mi ha fatto decisamente innamorare delle Hawaii, come sospetto che si sia capito a questo punto. Ho trovato una piccola azienda a conduzione familiare di miele e caffè. Lo cercavo per un regalo per una amica. Io non lo bevo, credo di essere l’unica italiana che beve tè e non caffè, e secondo il mio capo di qui è per questo che non sono potuta restare in Italia (joke). Qui una foto del caffè che mi hanno offerto, nel loro adorabile cortile, di fronte al mio verde preferito. Non ho ovviamente potuto esitare.


Da lì, mi sono interamente buttata nel verde, diretta verso Hilo. Se Kona e in generale la costa ovest di Big Island è più secca, accogliente e decisamente turistica, Hilo è la foresta pluviale, è l`isola che non domini con i resort, è la pioggia che può prendere la tua auto e scaraventarla verso il verde che ti ha fatto innamorare, sono le gocce che non riesci a levare dal vetro perché si abbattono troppo velocemente e non smette mai, la paura di non farcela, il messaggio di ALLERTA METEO nel telefono americano, più apprensivo lui di ogni altro americano ad oggi incontrato, è mio padre in una camera di ospedale che non posso abbracciare, è una nonna che non posso consolare, una mano che non posso stringere, una voce che non posso sentire e che non avrei da allora più sentito, è il terzo e ultimo cancello che cade a terra, esplode, io sola, in auto, e urlo, urlo di rabbia, e piango. Piango di rabbia, di paura, frustrazione, perché impotente. Sempre stata, ma è una scoperta recente. Credo di avere pianto per ore, guidando verso Hilo, e poi da lì lungo la foresta a sud-est, la pioggia che mi dava un riparo sicuro, finalmente un posto mio. Immagino che alle Hawaii non ci sia modo di tenersi l’armatura addosso. Troppa acqua, troppo sale: arruginisce.

Nel Dicembre 2023, durante la mia conferenza alle Hawaii, ho saputo che mia madre, già malata di una malattia incurabile, aveva preso un’infezione potenzialmente mortale. Il piano era di tornare a casa per Natale ma, in quel momento, non sapevo se avrei fatto in tempo a rivederla prima che morisse. E non avevo modo di pagarmi un viaggio per tornare prima. Anche potendo, non li avevo, i soldi. Non li ho avuti per mesi. Non è accaduto il peggio, e quella fu solo la prima volta, come poi ne sono seguite altre, in cui ha ballato con la morte. Ho imparato allora che ogni volta che la vedo o che mi scrive, può letteralmente essere l’ultima. Quanta rabbia che avevo, alle Hawaii. Quanta rabbia che credo di avere ancora, verso un destino che, francamente, a volte mi pare solo sadico nei confronti dei miei genitori.

Ho messo una amica in chiamata, ho lasciato parlare principalmente lei, cosi che ascoltarla mi calmasse il sistema nervoso, mentre guidavo da Hilo e le sue piogge verso una delle quattro spiagge al mondo ad avere sabbia verde: la spiaggia di Papakolea, nel sud di Big Island. Un parcheggio sterrato mi accoglie a circa mezz’ora di auto dalla meta. La guida verso la spiaggia con mezzi propri è proibita: o si scende a piedi, con un percorso di circa tre ore tra andata e ritorno, o si condivide uno dei pick-up dei locali, per una cifra che ho trovato irrisoria. Il trasporto su pick-up (non meno antico di venti anni vissuti intensamente), tuttavia, consiste in circa mezz’ora per tratta in cui si sta in piedi sul suo cassone. Delle sbarre di metallo sono saldate alla carrozzeria del mezzo, assicurando una salda presa per me e gli altri dieci impavidi turisti con cui ho di fatto effettuato il più avventuroso carpooling della mia vita, caratterizzato da strada segnata dalle piogge e dal fango, varie sgomitate (e risate) e, sulla strada del ritorno, un refill acrobatico con tanica di benzina e imbuto.

Rifarei tutto domani.


Rocce rigate dal vento e dal mare avvolgono la spiaggia, per poi sgretolarsi alla loro base, regalandole la sua sfumatura di verde scuro. Mi sono ovviamente armata preventivamente di un sushi, freschissimo, preso da un supermercato per strada appena fuori da Kona: è noto che il pesce è sempre più buono di fronte al mare. Ho ascoltato il suono più bello del mondo durante la nostra ora di pausa sulla spiaggia, ho messo un poco di balsamo su una ferita aperta e che, non sorprendentemente, ha continuato a sanguinare ogni giorno per circa tre mesi da allora, e ho giocato con il verde di quella sabbia, me la sono messa addosso, ho cercato di distinguere i cristalli tra le mie dita, ho provato, invano, a catturarne la sua sfumatura in foto. Ancora una volta, bimba felice, anima (se esiste) salva.


Tornata all’auto, mi sono concessa una fermata ad una fattoria di passaggio verso la successiva meta, dove ho potuto prendere miele e una buonissima spremuta al mango, decisamente il dolce di cui avevo bisogno. Quanto verde, di nuovo, stavolta più tiepido, nel sud di Big Island. Qui è il verde dei pascoli, degli allevamenti, di un promontorio che si affaccia al mare ma è asciugato dal sole quanto poi rinfrescato dalle piogge. E` la Big Island delle produzioni familiari, del turismo a misura di locali e non di turisti, di mulini e mucche, di una bibita al mango mentre volo verso l’ultima tappa della giornata e della mia vacanza/lavoro alle Hawaii.

E` una corsa contro il tempo, la mia, devo arrivarci prima del crepuscolo. Ho solo quella sera, devo ripartire per la California la mattina dopo.

Quando arrivo, chiedo timidamente se posso entrare senza consumare al bar. Non avevo veramente voglia di essere umani: ero lì solo per loro. Sarà stata la mia aria sfatta dalla giornata in auto, le piogge, le lacrime, il sale addosso, il mango endovena, non so onestamente la ragione, ma il valletto mi ha parcheggiato l’auto senza farmi pagare l’ingresso o il parcheggio. Mi sono potuta avventurare al di là dell’hotel, affacciandomi direttamente sul mare. Ho seguito il sentiero delle lampade ad olio. Mi sono seduta sul cornicione di pietra, terrazza rurale offerta dall’hotel principalmente per i suoi ospiti.

Ce l’avevo fatta: si trattava solo di aspettare, a quel punto.

Il faro piantato sul mare dona una sfumatura azzurra all’acqua notturna, le onde sono leggerissime, e ricordo chiaramente di avere respirato tutto il sale che potevo, in due ore di silenzio e attesa. Il mare non lo vedo spesso, vivendo a un’ora dal deserto: ogni minuto è prezioso. E, poi, posso aspettare, per lei.

Quando arriva, vedo prima le ali (pinne?), due metri ciascuna, castano scuro. Solo dopo, il muso bianco, e la pancia quando si mette a piroettare sotto la luce del faro, che attira il plancton. Le mante arrivano essenzialmente una alla volta, vanno e tornano verso il faro, leggere, maestose, volano nell’acqua, mi stregano e, ancora, curano ferite solo con la loro bellezza. Mante, razze, trigoni: hanno qualcosa di magico, se l’oceano ha un’anima, le custodi sono loro.

Io non lo so se la bellezza può salvare il mondo ma, garantisco, salva me tante, ma tante di quelle volte.

Ho ammirato le mante per altre due ore. Altri tre turisti come me, sicuramente ospiti del hotel, si sono aggiunti, fortunatamente, in silenzio, anche loro stregati da quella danza al Manta Ray Point. In religioso silenzio, abbiamo ascoltato le onde scorrere sulle loro ali, nell’oceano azzurro, sotto un cielo di stelle e sale.

Uno dei danni del coronavirus che prese mia madre quella volta, irreparabile, fu la completa perdita della voce. Già da mesi non riusciva più ad articolare parola, ma poteva ancora gridare per esprimersi. Quella volta, ha smesso di emettere ogni forma di suono. In quel momento ero solo preoccupata di poterla rivedere, almeno un’altra volta. Ci avrei messo settimane a realizzare che era avvenuto quel punto di non ritorno. Quella tappa era bruciata, e con essa ogni possibilità di risentire il suono della sua voce, e alle Hawaii lo sapevo, il dottore lo aveva previsto. La malattia che procede, il passo successivo, un baratro a ogni passo, e ogni volta non so mai il quando, quando arriva il prossimo baratro. Se non è sadismo, questo.

La prima mattina di vacanza mi sono fermata in un parcheggio nel lato di Kona, per finalizzare il mio itinerario per la giornata. Al mio arrivo, un ragazzo stava seduto sul cornicione in pietra, armato di binocoli e, chiaramente, curiosità e pazienza. Non ho detto nulla, ma ho atteso. Qualunque cosa stesse attendendo, doveva valerne la pena. Di certo, la vista del paesaggio, il giallo sul nero e il verde sul blu, valevano la mia attesa da soli. Quando se ne stava andando, mi spiega che era appena iniziata la stagione per vedere le balene da quel punto panoramico. Mi ha spiegato dove e come vederle. Ricordo ancora la passione e l’entusiasmo, ricordo ancora quei due occhi di un blu profondo e senza senso, e quella sensazione di familiare. Quella scena, quella scena io la avevo già vista. Già vissuta. E, lui, si, con quei capelli lunghissimi, spalle larghe, vichingo coccoloso, decisamente mi ricordava qualcuno ma no, non era solo questo.

Ci ho messo giorni a realizzare. E` l’entusiasmo di chi ama il suo posto speciale, e lo vuole semplicemente condividere con chi lo ama a sua volta. Sono io che porto chiunque mi piaccia, a Cagliari, a vedere le luci da viale Buon Cammino. E` lei che mi porta sulla terrazza di Livorno, perché sa quanto mi piacciono le luci notturne e il mare, ci era già stata e doveva mostrarmele perché, semplicemente, era un tesoro per gli occhi, per i miei, nello specifico. Sono io che trascino i miei genitori al tramonto nella piazza de La Defense, a Parigi, perché voglio che vedano assolutamente quel tramonto rosato tra i “grattacieli”. E` lei che mi porta alla spiaggia appena scoperta di Sant’Antioco, di notte, profumo di lentisco e bagno di Luna e verità. E` la bellezza del posto speciale, e non lo so se per chi vive in un’isola, per chi viene da un’isola, possa essere più intensa rispetto a chi viene dalla terraferma, ma quando quegli occhi di oceano, senza nemmeno chiedere nulla di me, mi hanno semplicemente condiviso il loro tesoro, il loro segreto su quell’isola, ho pensato a tutti i posti segreti che mi hanno regalato, e che ho regalato. E lì non è solo bellezza. E` amore. Per chi ci porti, nel posto. O, è kapu, il terzo cardine della vita a Big Island, l’amore per la tua casa, per l’acqua e la terra alle Hawaii, per il tuo posto speciale, il tuo tesoro, che condividi con chi SAI che VEDE che è il tuo tesoro, è parte di te e, di conseguenza, lo ama. Non lo so se la bellezza ci possa salvare, non lo so se lo faccia l’amore, ma almeno capisco che danno un senso a questa giostra, per quanto sadica, per quanto bruci, e mi ha bruciato come fiamme in gola negli ultimi due anni, e brucia ancora adesso che scrivo. Per questo, in effetti, scrivo.

Grazie, Hawaii. Ritornerò.



 

 


Commenti

Post popolari in questo blog

Una chiamata da Porto

Nonostante tutto: fine settimana nella Death Valley