Nonostante tutto: fine settimana nella Death Valley
Un Joshua Tree mi ammicca dal finestrino, mentre viaggiamo verso nord, diretti verso la Valle della Morte. Nome attraente, a modo suo. Tanto meno i Joshua Trees attorno a noi, tanto più ci avviciniamo al confine tra la California e il Nevada. In auto con un amico persiano e una russa, non posso che notare quanto nuova ancora mi sembri questa vita negli Stati Uniti.
I Trona Pinnacles sono la prima tappa del nostro viaggio, precedentemente salvati sulla mia To-visit List su Maps, una distesa di bandiere verdi che si stende attualmente su mezza California, per lo più ad almeno due ore di auto di distanza da dove vivo. Guidiamo sul letto di laghi di circa 100 mila anni fa, all’epoca interconnessi da qui fino alla Death Valley. Vediamo i Pinnacles subito ergersi alla nostra destra. Imponenti, folli, insensati, come buona parte di quanto ho vissuto questa settimana; pilastri di roccia di tifo ci circondano, alti abbastanza da invitare alla salita, per godersi la valle nella sua interezza. Paesaggio surreale, una California che non ti aspetti se non ci vivi, ho poi scoperto che è effettivamente stato usato come ambientazione in film, serie e perfino spot di auto.
E voi? Che ci filmereste qui? Io ci vedrei bene lo spot di una ape, possibilmente di un bel verde acceso. La comprerei immediatamente.
Dopo pranzo, un bagno di sole per me e di crema solare per la nostra russa di fiducia, ci rimettiamo alla guida, determinati a raggiungere il nostro motel entro la notte. Di strada, ci siamo rotolati sulla sabbia delle dune di Mesquite, dove ci siamo fermati per goderci il primo tramonto della nostra vacanza. Le abbiamo trovate facilmente dall’accumulo di macchine nel parcheggio, primo segnale di quanto chi viva alle porte della Death Valley apprezzi passeggiare sulle dune. Non solo: sulle Dune si slitta. O surfa. Letteralmente, ho perso il conto dei ragazzini armati di tavola, appena concava ai bordi, su cui, o in piedi, o seduti, sono scesi lungo le dune. Se fossimo arrivati anche solo mezz’ora prima, ne avrei chiesta una in prestito.
Dune. Morbide, di un dorato scuro, erose e intrappolate dalle montagne che circondano la valle, e infine pettinate dal vento. Ho giocato a salire sulle dune, a camminare lungo il loro profilo, mentre il sole calava dietro alle montagne, e le primissime stelle ci hanno salutato.
Solo il gelo del deserto ci ha fatto scappare, una volta calato il sole. Mi sono stretta nella mia nuova giacca, verde, ovviamente un regalo, ovviamente caro, ovviamente suo. Questo posto la divertertirebbe tantissimo.
Il motel, a Beatty, si rivela il motel più decente che io abbia mai preso. Legno invece di moquette, acqua calda, sapone e balsamo, letti larghi e puliti, nessun rumore inquietante durante la notte, nessun gestore cringe, e nemmeno una visita della volante della polizia. Progressoni dalle mie notti a Ottawa.
La notte, armati di telescopio (lui), mantello (lei) e passamontagna (io), siamo usciti a fare stargazing nel deserto. A nemmeno un quarto d’ora dal paese, le luci nel cielo sono fioccate. Non ti stanchi di guardarle, manca il fiato, ti ci perdi, e stai al posto giusto. Il posto sicuro.
Si: in mezzo al niente, di notte. Lo so.
Notte fortunata. Il nostro amico si è dedicato alla fotografia notturna, cedendomi consapevolmente il controllo del suo telescopio. Che. Bello. Anni che non ero cosi veloce: in un attimo, ho puntato Giove, con le sue più vicine quattro lune; a seguire, Venere, troppo luminosa da distinguere nitidamente ma, comunque, mozzafiato. Infine, Marte, rosso, rossissimo, un dischetto rosso nell’oculare, con due cenni di bianco ai poli. Io, molto fiera di me, non lo nego.
Ma diciamolo: non vai nel deserto per vedere i pianeti. Il cielo così pulito, anche in una notte ventosa, comunque richiede la caccia agli oggetti Messier. Mi sono buttata subito nella Nebulosa di Orione, ovviamente. Nessuna macchia sull’oculare ti rende cosi felice quanto una nebulosa. Quattro vite fa, lo puntavo con il mio telescopio, in una notte meno fredda ma decisamente più umida, dal giardino della casa della mia famiglia in Sardegna. All’epoca una gatta arancione era la mia unica (pelosa, silenziosa e rassicurante) compagnia in giardino, al chiaro di stelle che, uniche, mi davano pace, quando la testa era altrimenti un vespaio di pensieri, ansie, sogni, paure. Sono seguiti tre ammassi aperti, Pleiadi incluse, diamanti al telescopio. Una luce tiepida da dietro una montagna ad Est ha annunciato il sorgere della Luna e la fine della nostra caccia al Deep Sky, ma non senza una sbirciata ai suoi crateri. In fondo, è la mia più vecchia amica.
Ubehebe Crater è la prima tappa della domenica mattina, mediamente pigra dopo la nottata nel deserto. Arrivarci tramite Emigrant Road è stato evocativo, vista la specifica compagnia. Contrariamente a quanto pensassi, il cratere non è il risultato di un impatto meteoritico ma dell’esplosione di vapore acqueo sotto la superficie che, alimentato dal calore del vulcano, ha scavato il cratere, con un diametro di circa 1.5 km e una profondità di 180 metri. Essenzialmente la mia paura incarnata con le pentole a pressione.
Un po` titubanti, ci siamo calati lungo il cratere, nonostante il sole alle 11 del mattino promettesse già per una risalita interessante. Calare lungo il cratere significa lasciarsi circondare dal nero dei detriti mentre la temperatura sale di circa 10 gradi dalla cima alla base del cratere. Lì, una distesa di terra intagliata dalla siccità si lascia addolcire dai pochi arbusti che, qui, inspiegabilmente per me che nulla so di botanica, hanno trovato modo di crescere. Anche in seguito, guidando per la Death Valley, questo si conferma essere la sottotrama comune: il “nonostante tutto, eccoci qui”. E no, non sto più parlando delle piante.
Lasciato il cratere, e bevuto qualcosa come mezzo litro di acqua a testa, ci mettiamo di nuovo in auto, armati di clementine e una ottima playlist. Dal Cratere, scendiamo verso sud, risalutando le Mesquite dunes e dritti verso IL punto scenografico: Zabriskie Point. Non ho mai visto il film, e non sono sicura di volerlo mettere in cima alla lista, viste le recensioni MA devo dire che è entrato nella lista solo per questo set.
A qualcuno vissuto in Asia o in Medio Oriente, Zabriskie Point risuona familiare, qualcosa di visitato in una infanzia lontana, in un road trip in famiglia o dopo un lungo treno di 10 ore con gli amici. Per me, born and raised in Sardegna, di nuovo, surreale. Un deserto di rocce, alte e dolci, residuo di un lago ancora più antico della Valle, di milioni di anni fa. Su quelle colline abbiamo passeggiato, esplorato, e parlato. Principalmente di una America che da un lato ci accoglie, per alcuni sarebbe l’unica scelta ma, di fatto, non sembra veramente volerci. Di green Card, di VISA, di ricerca, di prospettive, di una California che potrebbe essere la terra di arrivo ma, almeno per me, è sempre saputa di terra di passaggio. Cinque giorni dopo ne avrei effettivamente avuto la conferma.
Evitiamo di iniziare una hike di due ore, per guidare spediti verso la Artist’s Palette. Qui i vari metalli ossidati regalano un sogno da esplorare. La passeggiata è una piccola rollercoaster, da fare corricchiando circa un’ora prima del tramonto. Slalom tra i veri fotografi e gli instagrammers, sprint in salita, imprecazione in sardo quando la ricerca del tik-tok perfetto mi blocca letteralmente il sentiero MA, in appena dieci minuti, eccomi lì, di fronte a quei colori che per primi mi hanno chiamato nella Valle. Metto qui una foto ma assicuro, non rende minimamente giustizia.
Non ha senso, ma quei colori pastello lì, sulle rocce, fanno sorridere. Mi hanno fatta sorridere, di gioia. i miei compagni di viaggio sono anche colleghi. Quanto gli deve essere sembrato strano, vedermi tanto bambina, senza responsabilità, senza armatura, senza target, se non: "voglio vederle".
Bastano pochi passi per capire il perché del nome di Dante’s View, la nostra tappa per il tramonto della domenica. Che sia il deserto roccioso, o la distesa di “ghiaccio” del Cocito della Valle, il panorama ti mozza il fiato, e non unicamente per il vento gelido che picchia lì più che sull’intera Death Valley. P.S: foto ritoccata di colori, era indecente anche per me.
La serata prosegue semplice. Ci concediamo un pasto caldo a un fast food, che scopriamo esistere all’interno di un piccolo casinò. Le luci, le grafiche, i colori delle macchine, l’odore fortissimo di sigaretta registrato dalla moquette, gli sguardi dei pochi presenti che comprensibilmente squadrano il nostro trio, mi fanno chiudere nella giubba, e ci fanno optare per una cena da asporto al nostro motel. Fun fact: io ho portato birra per l’amico, l’amico vino per me. Rosso, ovviamente.
Si parla, tanto. Voglio conoscere meglio questi due, capirli meglio, se riesco. E loro cercano di capire me. Una russa curiosa, credo per la prima volta in un anno abbondante di conoscenza, si mette a cercare la mia terra. Il picco di Cala Goloritzé è una delle immagini da Google che la colpisce di più. Sorrido, quando me la mostra, entusiasta.
Valuto di spiegare.
Ci sarebbe tanto da raccontare. Guardo i miei scarponi da trekking. Troppo. Ci rinuncio.
Ci sono muri troppo spessi anche per me.
Fatto dolce: quando siamo andati a caricare l’auto, una mamma e un cucciolo di asino si sono avvicinati a noi, appena ho fatto loro cenno. Ho atteso che il cucciolo si avvicinasse, e ho lasciato che mettesse il muso sotto la mia mano, sotto lo sguardo della mamma, che ha poi cercato anche lei attenzioni. Il pelo del piccolo, alto quanto me, era grigio chiaro, morbidissimo. Notte strana, devo dirlo.
Ultima tappa, la mattina dopo: il Cocito, appunto. Il Badwater Basin è uno dei punti più bassi tra le terre emerse, che arriva fino a 85.5 metri sotto il livello del mare. Una mappa ci accoglie all’ingresso del parcheggio, che lascio qui per futura referenza.
Il Bacino di Badwater agli occhi di una russa richiama la neve, quella di dieci inverni a Mosca. Distesa bianca di sale, su cui cammini, scioccato, dalla vastità, dall' insensata grandezza che il bacino ti offre.
Mi guardo attorno, e non lo so perché, sul momento, ma sento chiaramente il cervello che fatica ad elaborare. Di nuovo, quella sensazione di surreale, che ho da quando ci siamo avventurati sulle dune, o quando abbiamo guidato per la valle, come adesso, nel Bacino. Sensazione che ho solo io: gli altri due, per quanto affascinati, non hanno la mia espressione confusa, concentrata. Qualcosa non mi torna, fatico ad afferrarlo, e non so perché.
E, poi, capisco. O, almeno, capisco perché non capisco, perché non mi torna.
Fino ad allora, l’unico senso di infinito, di “non finisce mai”, l’ho avuto solo con il mare. O, successivamente, con l’oceano. Il piatto che non sembra finire, l’orizzonte, è sempre stato esclusivamente suo, fino ad ora. Il deserto è un nuovo infinito. Che sia di dune, che sia di roccia, che sia del bianco del sale lasciato dal fiume sotterraneo che abbiamo visto solo appena zampillare lungo la via del ritorno: questi sono nuovi infiniti. Una parte del mio cervello non lo credeva possibile, fino a quel momento. Non era concepibile, era insensato, quel nuovo infinito.
Camminiamo verso il parcheggio, vedo da lontano il segno che indica il livello del mare. E` un momento strano. Quando mi sono trasferita in California, ho lasciato abbastanza alle spalle da renderla la scelta più dura della mia vita. Non c`è giorno in cui non abbia un pizzico, almeno un pizzico, di nostalgia. Con il tempo sto imparando a nutrirla, invece di soffocarla. Sembra fare meno paura così. Ora ho foto sul frigofero. Ora suono. Ora scrivo. Ora disegno. Ora mi ascolto. E a distanza di un anno e quasi quattro mesi da quando ho poggiato il gatto sul pavimento del nuovo appartamento, e cinque giorni prima del nuovo count down, mi sono chiesta se non fosse stato destino. Un destino forse meno sarcastico e indegno di quanto lo abbia accusato di essere due anni fa. Tutto scorre, e io sono acqua. Come l’Amargosa, scorro dove nessuno se lo aspetterebbe, lontano dagli sguardi di tanti, a volte anche sottoterra, e a volte non lo vedo dove sto andando, e cammino per anni nel buio. Ma poi sfocio, sembra quasi dal nulla, riporto vita, sbrilluccico al sole, e mi espando, creo un nuovo orizzonte, il mio orizzonte. Nonostante tutto.
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