Highway 1

“Stai ancora sotto per lei, eh?”

Stiamo al telefono da ore come neanche facevamo al liceo, mentre assemblo il mio mobiletto nella nuova casa. Cristo, quanto mi era mancato, parlare veramente con lui.

Dire che sono arrivata rotta in California sarebbe l’eufemismo del secolo. Guardo la mia foto sulla VISA, occhi densi di rabbia, la ferocia di chi sente di avere perso tutto in due anni che sembrano, semplicemente, una vita passata, quella ciocca sulla nuca che, dopo l'ennesima notte insonne, si era rifiutata di sottostare all' elastico. Vita passata da tanto. Negli ultimi mesi ho controllato i miei occhi, più volte. Ho paura di ritrovare ancora pezzi di quella rabbia. A giorni la rivedo, chiaramente. Altri, sembra ci sia spazio solo per una luce antica.

Gli ultimi tre mesi sono stati un continuo addio, a una vita che cominciava a sembrare una seconda casa, in California, e un addio alla vita nella isola felice, dove felice non ero da anni.  

San Francisco, io e te?

Sarei tornata tre giorni prima del mio trasferimento…

Ma me lo ha chiesto lei.

Ovvio. Si.

Ed eccomi, a raggiungerla a Santa Cruz, attraverso una foresta di redwood. Rossi i suoi capelli, rosse le foglie, rosso il legno del tram storico di San Francisco.



Sto meglio? Posso definirmi “guarita”? Ci sono crepe che si riparano, o ci ho messo solo un bel tappeto sopra, fatto di successi e amicizie? Come faccio a sapere che il benessere di adesso, quella sensazione di abitare veramente la mia pelle, di essere finalmente me, tutta me, come faccio a sapere che non è solo una bella maschera che mi sono messa? Non sarebbe la prima, sono onestamente eccezionale in merito.

Eppure lo sogno tanto. Un posto che possa chiamare di nuovo casa. Stavolta con fondamenta, stavolta con radici, di nuovo radici. Quel senso di appartenenza, quella sensazione di “fitto”, quel lusso di potersi far avvicinare senza dover accendere un insegna al neon “STO PER PARTIRE-VADE RETRO”, e realizzare che lo ho fatto da davvero tanto, molto più di quanto si potesse pensare. Molto prima di lasciare la mia isola felice. Molto prima di iniziare a viaggiare per lavoro. Un seme di distanza germogliato tra le prime partenze degli amici del liceo e la voce del professore di meccanica quantistica al terzo anno di laurea “Restare in Sardegna? No: Partite”. E` come se la avessi interiorizzata, quella accettazione che non sarei invecchiata li nella mia isola. Allo stesso tempo, sono grata, per poche ma profondissime ragioni, di ogni giorno in cui sono rimasta, “nonostante tutto”. La mia testardaggine, mio più grande talento. Quello che avrei perso, altrimenti, inestimabile.

 

La costa di Santa Cruz mi ricorda quella del Quebec della scorsa estate. Tagliata dal vento, tenuta in sospeso dalla nebbia, con la speranza, concreta, di vedere le balene e delfini all’orizzonte. Mi sveglio e faccio colazione alla finestra di un ostello al Pigeon Point Light Station State Historic Park, con il suo caratteristico faro e le notti incontaminate dalla luce che mi hanno accolta la notte prima. 


A tavola con me, una coppia in viaggio. Lei le ha preparato la colazione, e stanno scegliendo insieme le prossime tappe del loro viaggio in auto. Sbircio dei sorrisi. Sbircio gli occhi innamorati. Meraviglia. Occhi che mi vedono come sono, che mi amano come sono, non -nonostante, ma ANCHE per i lividi e i tagli. Mi stringe, mi bacia. Qualcosa dentro di me si aggiusta, ricordo chiaramente la sensazione. Mamma che mi chiede di lasciare la porta aperta mentre strimpello con la chitarra, cosi mi può sentire mentre stira. Due mani e due occhi iridescenti che mi porgono una pietra verde, piccolo grande tesoro di una giornata di calma in una vita di burrasca, disperazione e morte. Vento che mi ascolta, in auto, occhi che non si perdono un mio respiro, mentre finalmente ne parlo, di quella tempesta. La prima serata con Vento, quando Castello non mi era mai parso tanto bello e dolce. Quanto mi sono sentita a casa, quella sera.

Sono qui con Volpetta, ma oscillo tra flashback di un passato che non posso riavere e flashforward di futuro che inizia tra cinque giorni.

San Francisco è la città dove avrei voluto poter lavorare in California. E vale anche per lei. Si trasferirebbe qui seduta stante, se potesse. Camminiamo per buona parte della mia prima giornata li, mentre assaggio un poco di pioggia, leggerissima, preziosa dopo un altro giugno a un’ora dal deserto. Andiamo a guardare i sausages, AKA i leoni marini, star indiscusse della città, mentre cantano e rimbalzano al molo. Chiudiamo Maps, e per una volta, con mio grande sconcerto, la osservo decidere dove andare. Decidere. Non lo credevo possibile. Io, dal mio canto, non ero interamente li con lei. Passato e futuro erano troppo ingombranti, hanno sgomitato per tutto il mese di luglio, da che sono tornata dalla mia isola felice, finché non ho impacchettato la mia vita per lasciare la California. Le valigie erano praticamente pronte tre settimane prima della partenza. Il letto, venduto dieci giorni prima, a costo di dormire sul mio piccolo divano. Mi faccio guidare, felice di camminare, lungo il Fisherman Wharf, tra chi fa jogging, si gode un ice cream, o si tuffa nella baia. Arrivate ad Embarcadero, risaliamo per Telegraph Hill, circa 90 metri di scale, giardini ricoperti di palmeti, panche, e adorabili cassette postali. Mi chiedo chi possa vivere li`. Non sembra reale tanto sembra perfetto, a due passi dal panorama completo sulla baia. Da questa collina, la città, prima via segnale luminoso e poi tramite telegrafo, veniva avvisata dell’arrivo di imbarcazioni sulla baia. Coit Tower, sulla collina, offre altri 64 m di scale, e un ascensore che non credo abbia mai funzionato. Saliamo, ovviamente. La vedo rimbalzare da una parte all’altra, catturando con la sua fotocamera il panorama completo, mentre il vento ci regala una tregua dall’ umidità della baia. Sorrido: bello vederla entusiasta.

Gli ultimi mesi con lei sono stati onestamente strani. Le ho visto chiaramente realizzare che non ci sarei stata più, non allo stesso modo, non di persona. Le nostre chiacchierate si sono fatte più intense. Gli abbracci, più frequenti. E lunghi. Cambia, soprattutto quando si passa da tutti i giorni a messaggi in un fuso orario diverso. Lo sapevamo. Lei forse meglio di me. Non credo che sapere lo abbia reso più semplice. Io, dal canto mio, non so nemmeno come mi sento. Non lo capisco. Ho quattro animali in testa, e da mesi non sono sicura di chi sia alla guida.

 

Mi hanno chiesto ieri la differenza tra mare e oceano. Non conosco una definizione obbiettiva. Personalmente, immagino sbagliando, associo il mare, anche in burrasca, a un mondo calmo, accogliente. Al mare mi sono rifugiata nei momenti più dolci come nei più desolanti. Il mare sa di racconti sussurrati di notte, di baci di fuoco sotto una luna complice, di passeggiate infinite, con due soldi in tasca e sogni straordinari, di falò con gli amici con un Montenegro o un Baileys del discount. Il mare sa di posto sicuro.

L’oceano, l’oceano ruggisce lei stessa. Oceano non accetta limiti. Oceano scava rocce alte venti metri, pareti praticamente verticali: la spiaggia va guadagnata. Oceano appartiene agli squali, i delfini, le balene, le foche, i leoni marini, le lontre, le alghe, non a te o a me. Oceano non ti accoglie quasi mai placida e materna. Oceano si vive sbattendo contro le onde alte metri, pareti di acqua e sale che spaventano ma, diamine, quanto sanno di vita. Oceano non si addestra, non si limita, non si vincola. Oceano è libera, potente, e non sarebbe viva se fosse altrimenti. Mare è amore che ti culla, Oceano è amore che ti capisce.

E, infatti, l’ho inseguito. Da Santa Cruz, lungo la Highway 1, fino a San Francisco. Genio, chi ha costruito quella strada. Il verde delle colline a destra, e a sinistra Oceano che scava la roccia, modella le spiagge limitate solo dalle scogliere, mentre un tramonto arancione ti regala la California che avevi sognato. Sono scappata spesso questo anno lungo la Highway 1. Lei non lo sa. Ma si, circa due mesi prima, in un fine settimana, ho guidato in media per cinque ore per due giorni di fila. Avevo bisogno di elaborare.

Ho lasciato che l’oceano si posasse sulla mia pelle a Pismo Beach.

Mi sono viziata a Solvang, l’unica città danese che abbia visitato ad oggi.

Ho ammirato le lontre, a circa tre metri da me, giocare sulla costa di Morro Bay.

Ero con lei a San Francisco solo fisicamente. Per il resto, mi ero trasferita in Canada. Per quanto mi sia arrampicata in qualunque sentiero, anche non ufficiale, sulla baia di San Francisco, camminato per 20 km in circa quattro ore pur di raggiungere una cascata e tornare indietro in tempo per l'aereo, sceso una parete di rocca di 12 metri per arrivare dove l'acqua delle Alemere Falls incontra Oceano, e comunque, "nel retro della mia testa", pensavo al poi. Di nuovo sola, come su quella spiaggia, a ricominciare tutto da capo.



I saluti, al mio ritorno, sono stati straordinariamente intensi. Sapevo di avere costruito dei legami. Forse, diversamente dalla partenza dall’isola, non ho avuto la sensazione che le cose sarebbero andate meglio senza me intorno. Al contrario, lasciare la California è stato lasciare amici che, sapevo, come confermato nelle scorse settimane, che avrebbero avuto una vita estremamente complicata nei successivi mesi, e io non sarei stata li a guardargli le spalle. A volte mi chiedo che persone saremmo, tutti noi, se fossimo nati e cresciuti in un posto diverso. Guardo Kingston, con tutti i suoi piccoli arcobaleni, e mi chiedo come sarebbe stato per me nascere e crescere qui, capire di essere omosessuale, senza provare per anni a non esserlo. O, semplicemente, come sarebbe Volpetta, se fosse cresciuta in una capitale dove i cani non vengono sgozzati per strada, sotto gli occhi di lei bambina. O come sarebbe lei, se potesse andare a trovare in serenità sua madre senza rischiare di perdere ogni diritto solo in quanto donna nell’istante in cui mette piede a “casa”. O come sarebbe lui, se avesse passato la sua prima giovinezza in un paese che accetta tutte le sfumature della mascolinità. Filosoficamente, sarebbero semplicemente non le stesse persone che ho incontrato, e che chiamo amici. Più realisticamente, saremmo le stesse persone, solo molto meno rotte. Occhi lucidi che mi stringono prima di partire, pinguini che si prendono un treno e un bus pur di salutarmi al terminale, due ore in auto mentre mi portano in aeroporto di forzato non silenzio, contro il solito karaoke dei road trip o le serenate persiane dei ritorni a Riverside, un tavolo di studenti e un capo straordinario che si, mi vedranno anche il giorno dopo ma, intanto, vogliono salutarmi veramente. Perché ci tengono. E perché, solo a poche settimane dalla mia partenza, Riverside ha alfine ottenuto una buona, da me approved, pizzeria.

“Qualcuno ti vuole salutare” mi scrive su whatsapp S., quando sto per lasciare il campus, il gatto su un braccio, lo zainetto da viaggio sulle spalle e la sacca di fortuna nell’altra mano. Scendo le scale, confusa. Due studentesse della laurea del nostro gruppo mi hanno voluto salutare di persona anche il giorno dopo, occhioni formato XL, stima, credo gratitudine. 

Solenne idiota, non riesco a dire molto. Non si esprimono facilmente in un altra lingua, certe cose. Come lo spieghi, la sensazione di “posto giusto”, quando ti ritrovi gente entusiasta di imparare da te, come saldare, come fare analisi dati. Come lo spieghi l’orgoglio, nel vederli passare da non sapere come chiudere una flangia a fare brainstorming improvvisato alla tua lavagna in ufficio, mentre scoprono sul momento, li, con te, il concetto di errore sistematico, applicato al loro primo esperimento? O quando, dietro a un paio di occhiali annebbiati dal fumo della saldatura, ti chiedono, entusiasti “Why did you say better not to solder on Friday evening? It’s so fun!”.

Questa settimana, ho incontrato i miei primi dottorandi. Due caratteri apparentemente opposti, entrambi dannatamente determinati. Ho ripensato a chi ho seguito in California e, prima ancora, a Cagliari. Se non fosse stato per loro, ora non avrei la sicurezza di poter guidare questi due ragazzini. Ripenso ai miei 24 anni, e questi otto anni, li sento come una Odissea. Una burrasca dopo l’altra, intervallata da isole felici. Persone che mi hanno resa felice, attimi di pace, di risate. A volte, onestamente, salvifici.  

Mi siedo su una delle panchine sul lago Ontario, di fronte a Wolfe Island. E` la mattina prima del mio primo giorno di lavoro qui a Kingston. L’acqua del lago sembra inaspettatamente pulita, trasparente in alcune aree, puntellata da barche rigorosamente a vela, triangoli bianchi sul blu del mare e il verde dell’isola, che separa Kingston dallo stato di New York, Canada da Stati Uniti. E si, questo lago sembra proprio il mare, in tutta onestà. Non è oceano: è mare. Ti culla, ti ci puoi bagnare mentre leggi un libro, puoi stenderti sulla spiaggia sapendo che non ti inghiottirà.


“Stai ancora sotto per lei, eh?”

Forse. In tutti i casi, domani riparto con la stanza delle parole. Ma, forse, forse no. Forse, forse è che per la prima volta dopo tanto tempo, non sto inseguendo nessuna lucina verde dall’altro lato del lago. Ora siamo io, le mie quattro personalità, più acciaccate ma riunite che mai. E ora, come otto anni fa, mi sento che posso mettere radici. Come avevo all’epoca sognato di fare con lei. Come adesso semplicemente voglio fare per conto mio, per me stessa e questa arancione palla di pelo, che mi ha seguito da Cagliari, alla California e, infine, al Canada. 

Per i diamanti notturni al Joshua Tree, per i the caldi sui tappeti persiani, per i bicchieri di vino all'ostello di fortuna, per gli abbracci rubati in corridoio. Per i brividi di rinascita, i baci di fuoco a Laguna, gli on the road sulla costa, da sola, con gli amici, con Sugar, per i Diwali, per i compleanni inaspettati, per i balli degli introversi al Canyon Crest park, per gli asinelli e i coyote di Los Angeles, per il nuovo mondo, tutto, tutto questo nuovo mondo, che ha abbracciato il mio caos e ci ha dato un senso, per questa versione di me: Grazie, California. Non ti dimentico.

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